1.
SAD (Social anxiety disorder) è una delle tante etichette che la neopsichiatria utilizza per darsi uno statuto scientifico meramente linguistico. L'etichetta riguarda le esperienze, comunemente ricondotte alla fobia sociale, caratterizzate da vissuti di ansia più o meno elevati, quasi sempre associati a somatizzazioni, che insorgono in situazioni di esposizione sociale, particolarmente in presenza di estranei. L'etichettamento, al solito, non è privo di significato. Sostituendo il termine fobia con quello di disturbo (disorder), la neopsichiatria prende due piccioni con una fava: nega le implicanze psicodinamiche del termine fobia, e iscrive la sindrome in questione nell'ambito del Disturbo d'ansia, considerato come espressione di una labilità costituzionale dei centri emozionali. La circostanza particolare che attiva il disturbo, l'esposizione sociale, viene considerata, da questo punto di vista, semplicemente un grilletto riconducibile al fatto che, data quella labilità, l'ambiente estraneo mantiene la sua carica perturbante e squilibrante rispetto a quello familiare. Da questo punto di vista, il Disturbo d'ansia, nella sua versione sociale (SAD), non fa altro che sottolineare l'infantilismo psicologico conseguente ad un difetto costituzionale che impedisce la maturazione di moduli comportamentali adattivi. Per quale altro motivo un qualunque ambiente sociale neutrale e non minaccioso dovrebbe indurre una crisi di panico?
Non occorre molto sforzo per invalidare una teorizzazione così banale. Primo, i soggetti affetti da SAD spesso vanno incontro ad una regressione catastrofica a partire da un livello di socializzazione apparente sostanzialmente integrato e normale. Secondo, le crisi di ansia si associano sempre ad un disagio psicologico riconducibile univocamente alla vergogna. E' vero che alcuni pazienti attribuiscono la vergogna alla possibilità di stare male in pubblico. Ma questa interpretazione non spiega né l'intensità del panico né le terribili conseguenze che i soggetti affetti da fobia sociale associano al realizzarsi di tale possibilità.
Tali conseguenze sono di ordine vario. Alcuni soggetti temono semplicemente di manifestare in pubblico una debolezza, una perdita di controllo su di sé, rivelando con ciò il riferimento ad un metro di normalità prestazionale. Altri soggetti associano allo star male l'abbandono, vale a dire una reazione indifferente degli altri tale per cui essi potrebbero ritrovarsi a morire soli come cani. Altri ancora temono che il panico possa indurre uno stato di smarrimento psichico, di perdita dell'identità, che potrebbe essere etichettata dagli altri come indice di una malattia mentale. Altri infine pensano, in conseguenza del panico, di ritrovarsi alla mercè degli estranei e di essere aiutati in maniera maldestra: per esempio essere portati in ospedale e sottoposti a cure sbagliate o, addirittura, ritrovarsi ricoverati in un centro psichiatrico.
Qual è l'elemento in comune tra questi diversi vissuti? Evidentemente, un riferimento "persecutorio" al mondo sociale extrafamiliare la cui pericolosità viene ricondotta di volta in volta ad un terribile potere giudicante, all'indifferenza nei confronti degli esseri deboli e bisognosi o, al limite, ad un intento maldestro di aiuto che implica, spesso inconsciamente, una diffidenza nei confronti della classe medica. Ricondurre questi vissuti ad una forma d'infantilismo è errato perché nessuno di essi fa parte dell'esperienza psicologica infantile. I bambini hanno paura degli estranei perché, non conoscendoli, attribuiscono loro (secondo un istinto attivo in tutti gli animali) una pericolosità fisica.
2.
I vari vissuti che ho elencato implicano diverse dinamiche. La paura del giudizio risulta quasi sempre avere un carattere proiettivo. I soggetti in questione convivono spesso con un Super-Io perfezionistico severo e intollerante, che mantiene nel loro intimo un vissuto costante d'inadeguatezza e promuove spesso giudizi estremamente negativi nei confronti degli altri. L'esposizione sociale viene di conseguenza temuta come circostanza che può smascherare l'inadeguatezza e porre di fronte ad un tribunale che la giudica impietosamente. In questi casi, prende corpo l'insegnamento evangelico: non giudicare, perché come giudichi così sarai giudicato.
L'indifferenza fa riferimento ad un dato di realtà, ad un mondo nel quale non c'è da aspettarsi molto dagli altri sul piano della solidarietà. Ma a quel dato si somma, di solito, un disprezzo inconscio nei confronti degli esseri deboli e bisognosi che appartiene esso stesso al modo di sentire profondo del soggetto. Non di rado, l'aspettativa di essere abbandonato a se stesso e lasciato morire come un cane, rivela sensi di colpa molto intensi in rapporto ai quali l'abbandono rappresenta una punizione.
La paura di un aiuto maldestro da parte della classe medica fa riferimento invece ad una memoria del tutto inconscia. Nell'immaginario collettivo e individuale, i medici sono i sostituti delle originarie figure genitoriali curanti. La diffidenza nei confronti della classe medica che, peraltro può essere giustificata da infiniti fatti di cronica inerenti la malasanità, rivela la memoria di un affidamento che ha prodotto più danni che vantaggi. E' un paradosso facile da capire quello per cui i soggetti che albergano memorie del genere eleggono i familiari a protettori e salvatori.
E' evidente che il SAD riconosce, dunque, motivazioni complesse, nelle quali aspetti soggettivi e aspetti oggettivi (la necessità sociale di far finta di essere sani, il disprezzo nei confronti degli esseri deboli e inadeguati, la burocratizzazione dell'assistenza medica, ecc.) s'intrecciano e si sommano. Dal punto di vista psicoanalitico, c'è la tendenza a privilegiare gli aspetti soggettivi nella genesi della fobia sociale. L'incidenza indubbia di questi aspetti però non spiega il fatto che la fobia sociale, come peraltro tutti i disturbi di ansia, stanno crescendo in misura esponenziale nella nostra società. Per spiegare questo dato occorre ammettere un incremento dei fattori oggettivi.
Di fatto, l'incremento della competitività rende sempre più temibile l'espressione di una qualunque debolezza. Il problema è esasperato dal fatto che il modello di normalità funzionale al sistema - che fa riferimento al risultare adeguati a tutte le situazioni di socialità, all'essere insomma forti - è sempre più spesso interiorizzato e vissuto come univoco. La burocratizzazione dell'assistenza medica, per cui è venuto meno il rapporto privilegiato con il medico di famiglia, che conosceva tutto dei suoi assistiti, incrementa la paura di ritrovarsi affidati ad un "tecnico"il cui valore professionale è ignoto e la cui conoscenza del soggetto è inesistente.
La diffusione epidemiologica del SAD insomma è un fenomeno che più degli altri rivela l'intreccio tra fattori soggettivi e fattori sociali e culturali. Dato questo, esso dovrebbe risultare prezioso al fine di superare la sterile opposizione tra psicologismo e sociologismo, e capire che, nel nostro mondo, la diffusione del modello competitivo di forza, che esiste oggettivamente e viene sempre più spesso interiorizzato, sta producendo dei danni. Per valorizzarlo, occorrerebbe fare riferimento ad un modello psicopatlogico autenticamente dialettico, che sia capace di cogliere i nessi tra soggettività e storia sociale.
3.
L'etichetta SAD procede invece in una direzione opposta. Essa sottolinea una disfunzione dei centri emozionali che viene ricondotta univocamente ad una predisposizione costituzionale, ad una vulnerabilità soggettiva allo stress. E' il solito approccio neopsichiatrico insomma, funzionale a privilegiare l'approccio medico e farmacologico al problema. Non c'è da sorprendersi pertano se, la crescita epidemiologica della fobia sociale, che è rilevante soprattutto negli Stati Uniti (laddove tutti i fattori oggettivi elencati hanno maggior rilievo rispetto all'Italia), dà luogo al tentativo delle case farmaceutiche di accparrarsi questa "nuova" fetta di mercato. Il problema è che molecole nuove, da qualche anno, non ce ne sono. Si tratta dunque di riciclare quelle già commercializzate. Il meccanismo è sempre lo stesso. Si sponsorizzano lautamente ricerche di centri universitari specializzati, i cui verdetti sono sempre positivi, e si aggiunge, alla presentazione comerciale di un farmaco, una nuova indicazione. Addirittura, si tenta di far passare il farmaco in questione come rimedio elettivo e mirato per la patologia in questione. E' quanto sta accadendo, in rapporto alla SAD, per l'Effexor, un antidepressivo lanciato alcuni abbi fa con un grande battage pubblicitario, che non è riuscito però a scalzare l'egemonia del Prozac e del Sereupin. Ora viene fuori, grazie alle ricerche prezzolate, ch'esso ha un'efficacia sulla SAD che investe il 70% dei casi! Provare per credere. Ma chi tra i pazienti che hanno difficoltà a mettere il naso fuori casa non sarà indotto a provare?
Situazioni del genre, peraltro ricorrenti da alcuni anni a questa parte, fanno capire quanto sarà lungo e accidentato il cammino per ridare alla psichiatria un minimo di dignità, di buon senso e di spessore scientifico.